ATTO BIANCO
CREDITS
Progetto, coreografia, danza \ dance choreography project:
Roberta Racis
Suono e musiche eseguite dal vivo \ sound and music performed live:
Samuele Cestola
Collaborazione drammaturgica \ dramaturgical collaboration:
Martina Badiluzzi
Consulenza drammaturgica \ dramaturgical advice:
Dea Merlini
Disegno luci \ lighting design:
Giulia Pastore
Direzione tecnica \ technical direction:
Mattia Bagnoli
Set, scenografia \ set, scenography:
Cmf Scenografie
Costume \ costume:
Rebecca Ihle
Vocal coaching:
Alessandra Diodati
Cura dei testi \ text curatorship:
Gaia Clotilde Chernetich
Foto e video \ photo and video:
Luca del Pia
Produzione generale \ general production:
Pietro Monteverdi
Promozione, cura \ promotion, care:
Jean-François Mathieu
Produzione \ production:
Oscenica
In coproduzione con \ in co-production with:
Primavera dei Teatri, Fabbrica Europa
Con il sostegno di \ with the support of:
Inteatro Polverigi, Teatro Politeama Mario Foglietti
Fondazione Armunia, Operaestate Festival / CSC di Bassano del Grappa
ATTO BIANCO
I'm wandering in the fog
I'm wandering in the fog
An angry spirit
A wild dancer
I'm wandering in the fog
I'm wandering in the fog
An angry spirit
A wild dancer
Your baby girl
Freedom is nothing more than
the distance between
a hunter and his prey
a hunter and his prey
it is in this laminal space
that I wander
I'm wandering in the fog
I'm wandering in the fog
An angry spirit
A wild dancer
I'm wandering in the fog
I'm wandering in the fog
An angry spirit
A wild dancer
Your baby girl
An orphan
A wounded animal on the run
A wounded animal on the run
I was trying
I was trying to stand up
to listen to myself
I was trying to remember
How to walk, how to dance
I was trying not to listen the voices in my head
Voices in my head
Voices in my head
Dropping them like leaves
Dropping me like leaves
Dropping them like leaves
Dropping me like lives
Like leaves
Like leaves
In the wind
I’m wandering in the fog
I’m wandering in the fog
An angry spirit, a wild dancer, your baby girl
An orphan
Un animale ferito in fuga
Un animale ferito in fuga
Provavo
Provavo ad alzarmi
ad ascoltarmi
Provavo a ricordare
Come camminare, come danzare
Provavo a non ascoltare le voci nella mia testa
Voci nella mia testa
Voci nella mia testa
Lasciandole cadere come foglie
Lasciandomi cadere come foglie
Lasciandole cadere come foglie
Lasciandomi cadere come foglie
Come foglie
Come foglie
Nel vento
Vago nella nebbia
Vago nella nebbia
Uno spirito infuriato, una danzatrice sfrenata, la tua bambina
Un’orfana
Vago nella nebbia
Vago nella nebbia
Uno spirito infuriato
Una danzatrice sfrenata
Vago nella nebbia
Vago nella nebbia
Uno spirito infuriato
Una danzatrice sfrenata
La tua piccolina
La libertà non è altro che
la distanza tra
un cacciatore e la sua preda
un cacciatore e la sua preda
è in questo spazio liminale
che vago
Vago nella nebbia
Vago nella nebbia
Uno spirito infuriato
Una danzatrice sfrenata
Vago nella nebbia
Vago nella nebbia
Uno spirito infuriato
Una danzatrice sfrenata
La tua piccolina
Un’orfana
Il bianco, dominante sin dal titolo della creazione, è un colore dalla storia particolare ed evoca una serie di rifrazioni concettuali cui Roberta Racis ha attinto per la composizione di questo lavoro in cui danza, voce e canto strutturano sinergicamente l’azione in scena. Atto bianco chiama in causa un universo visivo, sonoro e coreografico dai contorni netti ma aperti. Questa speciale texture è l’esito di una meticolosa stratificazione di tutti gli strumenti che la danzatrice e coreografa ha a disposizione: oltre ai contributi scenotecnici, tra cui il disegno delle luci di Giulia Pastore e la collaborazione del compositore Samuele Cestola. Atto bianco conta sulla presenza penetrante della sua autrice, danzatrice eclettica capace di un canto chiaro e potente che emana da un corpo profondamente, interamente investito nel proprio stato di danza. Il corpo che Roberta Racis porta in scena, facendo propria l’affascinante ambiguità tra performance e rappresentazione, è dotato di una tecnica che le consente di sfidare gli equilibri delle forme senza per questo sopraffare la sostanza sensibile che muove, tanto nel progetto concettuale quanto dal vivo, ogni azione.
Se nei suoi aspetti più esteriori Atto bianco è maturato verso un’estetica formale quasi minimale, è nelle sue trame più profonde che si rintracciano quegli elementi - profondamente intimi, vitali, e per questo mai del tutto consolidati e circoscritti - che sostengono la creazione da dentro creando negli spettatori quella che, specialmente in alcuni passaggi, potrebbe essere avvertita come una frizione tra una dimensione interiore calda e tumultuosa e un’altra, esterna, candida e lineare. Nella composizione coreografica, che abbraccia e racchiude diverse tecniche ed istanze performative, tra cui quella vocale, l’autrice sembra affidarsi non tanto alle superfici e ai volumi del proprio stato corporeo quanto alle increspature interiori. Non si tratta di rappresentare una serie di fratture emotive, ma di costeggiare un reticolo di venature, sottili e via via più ampie, che consentono - per esempio - a un movimento apparentemente ripetitivo di nutrirsi, approfondendosi e articolandosi nel corso della propria durata. A partire da questo stato della materia in costante fermento, Roberta Racis compone un omaggio al materno in cui si fonde, tanto epidermico quanto consapevole, uno studio sul dispositivo drammaturgico dell’atto bianco originario del balletto europeo d’epoca romantica.
Nello spazio bianco della scena cosparso di foglie, sintomo e ricordo di una natura che è sia materia prima di uno spazio amico della presenza del corpo, sia residuo di un mondo (o di qualcosa, o qualcuno) che non è più, la danza che si delinea spazza via via dal corpo e dallo spazio ogni filtro. Nella tradizione della danza classica, l’atto bianco è generalmente il secondo atto di uno spettacolo il cui libretto narra vicende che si situano a cavallo tra il mondo dei vivi del primo atto e una dimensione ultraterrena che viene rappresentata in scena attraverso atti cosiddetti “bianchi”, ovvero atti scenici in cui, una volta avvenuta la morte di un personaggio protagonista, solitamente femminile, la dimensione dell’aldilà si rende visibile. Non un vero e proprio paradiso svelato ai comuni mortali, ma un mondo dove tutti i colori si sono ridotti a uno soltanto, il bianco, che ammanta di un candore magico e uniformante lo spazio e il tempo. Etereo, magico, esotico, esoterico e mistico, l’atto bianco evoca un mondo tanto grande quanto inesistente e lo assegna, simbolicamente, al femminile. I corpi delle danzatrici, generalmente uniformati dal tutù bianco, stagliano in una luce bluastra virtuosismi tecnici in formazioni di gruppo che disegnano caleidoscopiche geometrie spaziali e, per le soliste, intrecci di passi complessi volti a sottolineare una possibile attinenza semantica tra il virtuosismo tecnico, le capacità espressive e la superiorità per certi aspetti “fatale” di quegli stessi corpi. Abbondando di sottotesti che isolano il femminile in uno spazio della fantasia, l’atto bianco si presta a una decisa “rimozione” del maschile come protagonista che, proprio perchè il mondo rappresentato è dominato dal lutto, dai sentimenti e, per esteso, dall’ultrasensibile, non tanto perde la propria cittadinanza scenica ma cavallerescamente la cede al femminile affinché lui possa comunque restare nel mondo reale. Così ghettizzato, per certi aspetti, il femminile si presta a una celebrazione subdola, in cui è finalmente lecito mostrare tutta la sua indomabile sensibilità, una gamma emotivo-cromatica che va dal dolore per la perdita dell’amato fino ai confini misteriosi dell’allucinazione e dell’isteria. Precursore e pionere di un’oggettivazione fattuale del femminile che nella danza si è rivelato più esplicitamente che in altri ambiti della cultura occidentale, l’atto bianco si predispone perfettamente, oggi, a un’indagine come quella condotta, con la danza, da Roberta Racis.
Da ogni atto bianco, emerge una prospettiva culturale sul sensibile che, nel canone, si è organizzata attorno alle mode culturali e alla dominazione di un ottocentesco (e purtroppo ancora attuale) male gaze che nel corso del tempo ha iniettato nel femminile una serie di qualità morali e fisiche, ma anche di tendenza ai turbamenti dell’anima che sono parte di ciò che oggi, faticosamente, si cerca di destrutturare. Con un approccio radicale e schietto, nel riappropriarsi dell’atto bianco Roberta Racis riflette, quindi, anche sulla condizione del femminile e così facendo fa deflagrare l’approfondimento personale sulla fragilità e sul lutto in una serie molto più ampia, e più profondamente autentica, di accezioni e possibilità di lettura.
L’impressione che Atto bianco porta con sé, attraverso l’immersione profonda da parte dell’autrice in ciascuno degli strati che compongono il lavoro, è quella di un tanto atteso ritorno a casa che, in effetti, verso la fine della performance si presenta con un cambio di temperatura che è anche un cambio di scena. Con una scritta neon che interroga senza mezzi termini il pubblico e qualche oggetto di uso quotidiano, lo spazio si fa cosy e la danzatrice ha finalmente facoltà di riposare, attendere, respirare, immaginare, in un tempo nuovamente sospeso e incantato, forse, ma finalmente tendente alla libertà. L’azione è matura e pronta per far sì che possa sciogliersi nel dispositivo creato dalla danzatrice quel dolore che l’ha mossa e accompagnata lungo tutto il viaggio che va dall’immaginazione, al desiderio e, infine, alla scena. Qui, davanti ai nostri occhi, Atto bianco è un tempo, forse, per disfarsi con leggerezza di qualcosa, trovare nuove radici, un nuovo canto, e non per questo dimenticare.
\ Gaia Clotilde Chernetich
The white, dominant since the title of the creation, is a colour with a particular history and evokes a series of conceptual refractions that Roberta Racis has drawn on for the composition of this work in which dance, voice and song synergistically structure the action on stage. Atto bianco brings into play a visual, sound and choreographic universe with sharp but open contours. This special texture is the result of a meticulous layering of all the tools that the dancer and choreographer has at her disposal: in addition to the stagecraft contributions, including Giulia Pastore's lighting design and the collaboration of composer Samuele Cestola. Atto bianco relies on the penetrating presence of its author, an eclectic dancer capable of a clear and powerful chant emanating from a body deeply, entirely invested in its own state of dance. The body that Roberta Racis brings to the stage, embracing the fascinating ambiguity between performance and representation, is endowed with a technique that allows her to challenge the balance of forms without overwhelming the sensitive substance that moves, both in the conceptual project and live, every action.
If in its more external aspects Atto bianco has matured towards an almost minimal formal aesthetic, it is in its deeper textures that one can trace those elements - deeply intimate, vital, and for this reason never completely consolidated and circumscribed - that sustain the creation from within, creating in the spectators what, especially in certain passages, could be perceived as a friction between a warm and tumultuous inner dimension and another, external, candid and linear one. In the choreographic composition, which embraces and encompasses different techniques and performative instances, including the vocal one, the author seems to rely not so much on the surfaces and volumes of her own bodily state as on the inner ripples. It is not a question of representing a series of emotional fractures, but of skirting a network of veins, subtle and gradually widening, which allow - for example - an apparently repetitive movement to nourish itself, deepening and articulating itself throughout its duration. Starting from this state of matter in constant ferment, Roberta Racis composes a homage to the maternal in which she merges a study on the dramaturgical device of the original white act of European ballet of the Romantic era.
In the white space of the stage strewn with leaves, a symptom and memory of a nature that is both the raw material of a space friendly to the presence of the body, and the residue of a world (or of something, or someone) that is no more, the dance that emerges sweeps every filter away from the body and space. In the tradition of classical dance, the white act is generally the second act of a performance whose libretto recounts events that straddle the world of the living in the first act and an otherworldly dimension that is represented on stage through so-called 'white' acts, i.e. stage acts in which, once the death of a main character, usually female, has occurred, the dimension of the afterlife becomes visible. Not a real paradise revealed to ordinary mortals, but a world where all colours have been reduced to one, the white, which cloaks space and time in a magical, uniforming whiteness. Ethereal, magical, exotic, esoteric and mystical, the white act evokes a world as great as it is non-existent and assigns it, symbolically, to the feminine. The bodies of the dancers, generally uniformed by the white tutu, silhouetted in a bluish light, display technical virtuosity in group formations that draw kaleidoscopic spatial geometries and, for the soloists, weaves of complex steps aimed at emphasising a possible semantic connection between technical virtuosity, expressive abilities and the in some respects 'fatal' superiority of those same bodies. Abounding in subtexts that isolate the feminine in a space of fantasy, the white act lends itself to a decisive 'removal' of the masculine as the protagonist who, precisely because the world represented is dominated by mourning, feelings and, in extension, the ultra-sensible, not so much loses his scenic citizenship but chivalrously cedes it to the feminine so that he can remain in the real world. Thus ghettoised, in certain respects, the feminine lends itself to a devious celebration, in which it is finally permitted to show all its untamable sensitivity, an emotional-chromatic range that goes from grief at the loss of the beloved to the mysterious confines of hallucination and hysteria. Precursor and pioneer of a factual objectification of the feminine that has revealed itself more explicitly in dance than in other areas of Western culture, the white act is perfectly suited, today, to an investigation such as the one conducted, through dance, by Roberta Racis.
From each white act, there emerges a cultural perspective on the sensitive that, in the canon, has been organised around cultural fashions and the domination of a nineteenth-century (and unfortunately still current) male gaze that, over time, has injected the feminine with a series of moral and physical qualities, but also a tendency towards disturbances of the soul that are part of what today, with difficulty, we are trying to deconstruct.
With a radical and straightforward approach, in re-appropriating Atto bianco Roberta Racis thus also reflects on the condition of the feminine and in doing so deflagrates her personal exploration of fragility and mourning into a much broader, and more profoundly authentic, series of meanings and reading possibilities.The impression that Atto bianco brings with it, through the author's deep immersion in each of the layers that make up the work, is that of a long-awaited return home that, in fact, towards the end of the performance comes with a change of temperature that is also a change of scene.
With a neon sign bluntly questioning the audience and a few everyday objects, the space becomes cosy and the dancer is finally allowed to rest, wait, breathe, imagine, in a time once again suspended and enchanted, perhaps, but finally tending towards freedom. The action is ripe and ready for that pain that has moved and accompanied her throughout the journey from imagination to desire and finally to the stage to dissolve in the device created by the dancer. Here, before our eyes, Atto Bianco is a time, perhaps, to lightly dispose of something, to find new roots, a new song, and not to forget.
\ Gaia Clotilde Chernetich